Notule
(A cura di LORENZO L. BORGIA & ROBERTO COLONNA)
NOTE
E NOTIZIE - Anno XXII – 29 novembre 2025.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia”
(BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi
rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente
lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di
pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei
soci componenti lo staff dei
recensori della Commissione Scientifica
della Società.
[Tipologia del
testo: BREVI INFORMAZIONI]
L’arginina può davvero diventare un
farmaco preventivo della malattia di Alzheimer? L’arginina
è un aminoacido polare basico e la sua forma appartenente alla serie
stereochimica L (L-arginina) è uno dei 20 aminoacidi naturali; non è un
aminoacido essenziale, perché l’organismo adulto riesce a sintetizzarne una
quantità sufficiente al suo fabbisogno, ma si considera essenziale durante
l’infanzia e lo sviluppo, come istidina, cisteina e tirosina. Oggi se ne fa un
ampio uso in qualità di integratore, soprattutto per la pratica sportiva,
perché induce una vasodilatazione muscolare che favorisce l’arrivo di nutrienti
al muscolo.
Kanako
Fujii e colleghi hanno dimostrato in vivo e in vitro che
l’arginina è in grado di sopprimere l’aggregazione dei peptidi β-amiloidi
(βA). La somministrazione orale di arginina è risultata sufficiente a
sopprimere la patologia amiloide alzheimeriana e la lesività tossica dei
peptidi βA patogenici in vivo. Considerato che l’arginina è
virtualmente priva di tossicità ed effetti collaterali indesiderati, la sua
candidatura a nuovo farmaco per la demenza neurodegenerativa più grave e
intrattabile sarà presto valutata da molti gruppi di ricerca in tutto il mondo.
[Cfr. Neurochemistry International – AOP doi: 10.1016/j.neuint.2025.106082,
December 2025].
Dallo stress alla depressione:
autofagia e mitofagia ippocampale meccanismi chiave. Studiando
per 6 settimane gli effetti dello stress cronico lieve sulle vie di
autofagia e mitofagia in ratti maschi adulti, in rapporto a vulnerabilità o
resistenza al comportamento anedonico indotto dallo
stress, Paola Brivio e colleghi hanno indagato nell’ippocampo ventrale e
dorsale le regioni e il fenotipo specifico delle alterazioni neurobiologiche
allo stress. Nei ratti vulnerabili è stata rilevata un’accresciuta
mitofagia e una compromissione dell’autofagia nell’ippocampo ventrale. Questa
evidenza costituisce una nuova nozione nell’ambito dei meccanismi che possono
portare dallo stress cronico ai disturbi depressivi. [Cfr. Brivio P. et al., Neurobiology of Stress –
AOP doi: 10.1016/j.ynstr.2025.100769, 2025].
Immagini real
time di danno e riparazione del DNA grazie alla creazione di un sensore fluorescente.
Ricercatori
dell’Università di Utrecht hanno creato un live cell DNA sensor
che rivela in tempo reale la comparsa di un danno al DNA e la sua riparazione:
per la prima volta nella storia della biologia molecolare sarà possibile vedere
e studiare in cellule viventi questi processi finora esplorati ricostruendo le
fasi da preparati di cellule per esami microscopici ultrastrutturali. Ora è
possibile vedere l’improvviso sviluppo del danno, tracciare le proteine che
corrono verso il sito danneggiato e assistere alla riparazione del DNA. Il tag
fluorescente è posto su un dominio di una proteina della cellula che si lega
debolmente e temporaneamente al DNA: il dominio riconosce un marker che
compare solo sulla parte danneggiata dell’acido nucleico, e la proteina non
interferisce con il processo di riparazione. I danni del DNA sono rilevanti per
l’oncologia, l’invecchiamento, l’azione di farmaci e la neuropatologia, quindi
l’importanza della possibilità di seguire in diretta tutto il processo per
poterne analizzare ogni parte e potenziare la riparazione è davvero
straordinaria. [Cfr. Nature Communications – AOP doi: 10.1038/s41467-025-65706-y,
2025].
Disturbo bipolare: base genetica
esplorata anche nelle popolazioni meno studiate. Gli
studi di associazione estesi all’intero genoma (GWAS) del disturbo bipolare
nelle sue due forme nosografiche classiche sono stati condotti nella stragrande
maggioranza dei casi su volontari di antica ascendenza europea – come sono la
maggior parte degli Americani del nord, centro e sud del continente e degli
Australiani, oltre naturalmente a tutti gli Europei – non indagando
adeguatamente le popolazioni dell’estremo oriente per avere una panoramica
genetica più completa e indicazioni sui meccanismi molecolari del disturbo
indipendenti dalla varietà etnica.
Chu-Yi
Zhang e colleghi hanno indagato con GWAS per il disturbo bipolare 5.164 Cinesi
affetti e 13.460 controlli, in analisi comparativa con 4.479 casi dell’estremo
oriente non cinese (75.725 controlli) e 59.287 casi (781.022 controlli) di
origine europea. Incorporando i dati dell’estremo oriente nel GWAS
trans-ancestrale sono stati identificati 93 loci genici molto significativi, 23
dei quali del tutto nuovi. [Cfr. Nature Neuroscience – AOP doi: 10.1038/s41593-025-02147-2,
November 25, 2025].
Malattia di
Alzheimer: il Lecanemab induce nella microglia un
programma di eliminazione dell’amiloide. I visitatori di questo
sito ricorderanno le riserve che noi avevamo in fase di sperimentazione clinica
sul Lecanemab che, durante un trial, aveva
provocato un caso di morte con la più grave alterazione cerebrale mai vista
nello studio di un farmaco. Ci unimmo a una piccola cordata di gruppi di
ricerca sparsi nel mondo per cercare di fermare il processo di approvazione
dell’anticorpo da parte della FDA, giunto ormai alla sua fase conclusiva: il
caso fu giudicato più unico che raro e non impedì l’approvazione del farmaco.
Giulia Albertini del Leuven Brain Institute di Lovanio
(Belgio) e colleghi osservano che le controversie sulle immunoterapie
anti-amiloide rendono urgente la necessità di conoscerne i meccanismi d’azione.
I ricercatori hanno condotto uno studio in cui, usando un modello murino di
xenotrapianto microgliale, si dimostra che il Lecanemab
riduce la patologia βA e il danno neuritico associato con un meccanismo
che richiede l’intervento della microglia attraverso il frammento Fc. L’azione, a dispetto del legame alle placche, non si
produce silenziando Fc o eliminando la microglia, il
cui effetto terapeutico si attua per l’induzione di un programma trascrizionale
che aumenta la fagocitosi, la degradazione lisosomiale, la riprogrammazione, i
geni dell’interferone γ e la presentazione dell’antigene. [Cfr. Nature
Neuroscience – AOP doi: 10.1038/s41593-025-02125-8, November 24, 2025].
Malattia di Alzheimer: sospeso il trial
clinico della semaglutide (agonista del recettore GLP-1). Gli
agonisti del recettore del GLP-1 (glucagonlike
peptide-1), che hanno determinato una svolta nel trattamento dell’obesità,
del diabete e vari altri disturbi, sono nella fase di sperimentazione clinica
per la terapia della malattia di Alzheimer. Due grandi trials
randomizzati, controllati da placebo, sponsorizzati dalla danese Novo Nordisk,
che includevano 3800 volontari negli stadi iniziali della malattia di Alzheimer
seguiti per due anni per valutare una dose quotidiana di semaglutide (fino a 14
mg) contro placebo, sono stati interrotti per mancanza di risultati: la
semaglutide non ha fatto registrare effetti superiori al placebo nel rallentare
la progressione. [Cfr. Science – AOP doi: 10.1126/science.zvgswf0, 2025].
Maggiore massa muscolare e minore
quantità di grasso profondo fanno più giovane il cervello. Il
cervello di persone che hanno più muscoli e meno grasso addominale profondo
appare più giovane, secondo quanto rilevato da uno studio presentato in questi
giorni all’Annual Meeting of the Radiological
Society of North America (RSNA). Il grasso profondo della cavità addominale
sembra accelerare l’invecchiamento cerebrale, mentre la massa muscolare sembra
svolgere un effetto protettivo. La stima dell’età cerebrale è stata condotta
secondo i criteri correnti sviluppati sulla base di indici che si rilevano
mediante MRI (magnetic resonance
imaging); la stima dell’età cerebrale consente anche di valutare il rischio
per malattie neurodegenerative come la malattia di Alzheimer. [Fonte: Radiological Society of North America (RSNA), Nov. 25, 2025].
L’orsetto lavatore è prossimo alla
domesticazione: si rimpicciolirà il suo cervello? Secondo
uno studio pubblicato su Frontiers in Zoology il procione (Procyon
lotor), detto “orsetto lavatore” per il
comportamento di lavare frutta o altro cibo quando è vicino a specchi d’acqua,
torrenti o ruscelli, è prossimo a diventare un nuovo animale domestico negli
USA, per il comportamento assunto da molto tempo in numerose aree del paese in
cui è sempre più vicino all’uomo, apparendo dipendente da rifiuti e scarti ai
margini degli abitati, e per la presenza di alcuni segni della “sindrome del
fenotipo da domesticazione”. Questo fenotipo è stato desunto dai cambiamenti di
varie specie animali che si sono adattate alla convivenza con l’uomo, e include
cambiamenti anatomici e dell’aspetto, quali: riduzione dello scheletro facciale,
arricciamento della coda, afflosciamento delle orecchie, depigmentazione e
diminuzione di volume del cervello, come nel caso del cane domestico rispetto
al lupo. Quest’ultimo cambiamento attrae particolarmente la nostra attenzione, e
saranno necessari nuovi studi per chiarire se si tratta di una riduzione
complessiva e in ugual misura per le singole regioni, oppure il dato del
cervello più piccolo si deve ascrivere alla riduzione prevalente o specifica di
alcune parti dell’encefalo. Naturalmente, dati precisi consentirebbero una
fondata interpretazione evoluzionistica del fenomeno.
In termini comportamentali, l’elemento
principale per giudicare un’evoluzione verso la vita domestica consiste nella
riduzione di entità della fight or fligh reaction
e, soprattutto, della rarefazione della risposta di fuga alla vista dell’uomo.
A margine di questa notizia, riportiamo
qualche curiosità su questo animale: fu Cristoforo Colombo nel suo “registro
degli animali avvistati” a fornire la prima descrizione del procione; Linneo lo
classificò prima come “Orso dalla coda lunga” e poi come “Orso lavatore”; Storr
per primo si rese conto che non apparteneva ne’ al genere del cane ne’ a quello
dell’orso, creando per lui il genere Procion,
secondo alcuni (Hohmann, Holmgren)
da Procione, la stella più brillante della costellazione del Cane
Minore. [Fonte: Raffaela Lesch, Frontiers in Zoology, Nov. 21,
2025].
Il feroce leone marsupiale dai denti a
lama era parente stretto del koala. Un nuovo studio,
indagando il collageno preservato in ossa di animali estinti, ha ridisegnato
l’albero evolutivo dei marsupiali del continente australiano, trovando al
grazioso, sonnacchioso ed erbivoro koala (Phascolarctos
cinereus) un cugino carnivoro, terribile
predatore: il leone marsupiale (Thylacoleo carnifex) estinto circa 40.000 anni fa. Si suggerisce
la lettura di questo studio, condotto da Buckley e colleghi, per le numerose e
interessanti nozioni sui progenitori dei moderni marsupiali, che spiegano anche
caratteri dei marsupiali difficilmente interpretabili sulla base del loro
attuale adattamento. [Cfr. Proceedings B of the Royal Society, Nov. 12, 2025].
Linguistica: antichi misteri risolti
grazie all’aiuto della neurofisiologia cerebrale. Nella
codifica e decodifica della lingua parlata mediante la scrittura e la lettura,
il nostro cervello fa ricorso all’apprendimento precoce della madre lingua
ottenuto attraverso la pratica immersiva e intensiva della comunicazione
verbale, che produce, con l’aiuto dell’apprendimento scolastico della letto-scrittura,
tanti tipi diversi di memorie associative in grado di interagire formando il
sapere semantico-lessicale alla base della nostra “competenza linguistica”. Il
legame tra fonema e grafema che si stabilisce precocemente nella
madre lingua, con la caratteristica di un’associazione stabile e fissa secondo
le convenzioni di quell’idioma, fa sì che il cervello adoperi l’identificazione
dei suoni con le lettere senza bisogno di altre specifiche e, nei casi in cui,
ad esempio, una consonante come la “c” suona in modo diverso se seguita da “e”
ed “i” o da “a” e “o”, la particolarità viene
appresa come implicita, senza dar luogo ad un’esigenza di
rappresentazione. Su questa base, sappiamo che l’esigenza di rappresentazione
nasce nel caso della notazione di un idioma diverso dalla madre lingua dello
scrivente.
Questa traccia è stata di aiuto nell’interpretazione
di casi irrisolti sulla scrittura del latino, nello studio interdisciplinare di
epigrafisti, fonologi, fonetisti e storici delle lingue.
L’alfabeto che chiamiamo latino è
in realtà un adattamento dell’alfabeto etrusco, impiegato non solo per
notare la lingua latina, ma anche altri idiomi dell’Italia antica: venetico,
osco, peligno e marrucino. Oggi notiamo che le differenze rispetto all’alfabeto
etrusco sono poche, ma alcune di queste sono state oggetto di profondi e
accurati studi, che per lungo tempo non erano giunti ad una conclusione certa e
univoca. Ad esempio, il mistero della scomparsa della lettera “K”, rimasta in
uso quasi solo per la parola Kalendae, e la
successiva ricomparsa in epoca medievale. Il perché di questo fenomeno è
rimasto un rompicapo insoluto per secoli.
Nell’alfabeto latino, come in quello
etrusco, i tre segni C, Q e K sono usati in modo complementare, come dimostrano
i nomi delle tre consonanti: ce, qu e ka. Gli Etruschi
aspiravano le occlusive p, t e k, come sappiamo dalla loro
eredità lasciata nella gorgia toscana, ossia nell’uso particolarmente
evidente nei Fiorentini di aspirare tre occlusive: le “c” dure (ossia il fono
“K”) e in misura meno marcata alcune “p” e “t”. Da questa particolare pronuncia
deriva l’esigenza etrusca di distinguere nello scritto le “c” che aspiravano,
contrassegnandole con il grafema “K”. Probabilmente questo era dovuto al fatto
che in origine nell’etrusco vi erano casi di valore semantico dipendente dall’aspirazione:
in altri termini, parole il cui significato poteva cambiare se non si aspirava la
“c”.
Adottato l’alfabeto etrusco dai popoli
italici, nei primi secoli in latino si conserva la lettera “K”, poi,
considerato che non indicava più l’aspirazione ma solo il caso di pronuncia
dura, che era appreso fin dall’infanzia come regola di pronuncia della c,
si ritenne superfluo annotare la distinzione nella scrittura. Poi, quando i
popoli germanici adottarono il latino, fu necessario insegnare loro, che
avevano altre abitudini fonologiche e idiomatiche, la pronuncia romana delle
parole latine: questa diffusione del latino riporta in auge l’uso del segno K
nelle iscrizioni, e poi in altri scritti.
In passato era noto agli studiosi di
storia delle lingue che nel latino germanico, per la “legge del conservatorismo
della periferia”, si custodiva l’antica pronuncia romana di molte parole che in
Italia erano mutate per effetto della diffusione di abitudini prevalenti nel
centro culturale di uso letterario, filosofico e politico della lingua. Ad
esempio, si scoprì che “Cesare” si pronunciava Kaesar,
come era scritto anticamente, perché da quella parola deriva il “Cesare”
tedesco, Kaiser, e quello russo antico, C’zar. Il gallo, cicirrus in latino, si doveva pronunciare kikirrus perché noi abbiamo ereditato l’indicazione
italiana del verso del gallo dalla denominazione onomatopeica latina: il cicirrus fa “chicchirichì” e non certo “cicciricì”. [BM&L-Italia, novembre 2025].
Un chiarimento circa la posizione
contraria alla laurea honoris causa a Carlo Verdone. Ci
è stato chiesto perché ci siamo opposti al conferimento della laurea honoris
causa in farmacia o addirittura in medicina e chirurgia a Carlo Verdone.
In realtà, non si è trattato di un
“opporsi”, ma della spiegazione delle ragioni che rendono del tutto infondata e
gratuita la proposta che, peraltro, era stata avanzata da Regina Orioli,
un’attrice che ha cominciato la sua carriera con Paolo Virzì entrando nel cast di
“Ovo Sodo”, e non certamente da un’autorità accademica. Semplicemente noi
spiegavamo al grande pubblico che la capacità di riconoscere delle compresse
dalla forma o ricordare i nomi commerciali di molti farmaci è una conoscenza da
paziente non da farmacologo o medico: è necessario conoscere la chimica, la
chimica organica, la biochimica e la fisiologia umana per capire qualcosa di
farmacologia, soprattutto di farmacodinamica (azione, sede di azione e
meccanismo d’azione) e di farmacocinetica (assorbimento, biodistribuzione,
metabolismo ed escrezione). In realtà, degli oltre diecimila principi
attualmente impiegati per la preparazione delle specialità farmaceutiche non è
sufficiente per orientarsi conoscere la classe chimica di appartenenza, ma è
necessario studiare il meccanismo dei gruppi funzionali attivi, perché molecole
della stessa classe chimica hanno azioni principali ed effetti collaterali
spesso molto diversi, secondo uno spettro più o meno ampio a seconda del
composto e della dose.
Poi, non è superfluo sottolineare che,
per avviarsi allo studio della farmacologia, è necessario possedere alcune
nozioni elementari, che Verdone ignora del tutto, ma senza le quali è difficile
organizzare in modo logico e utilizzabile le nozioni farmacocinetiche e farmacodinamiche
alla base dell’impiego terapeutico dei farmaci. Di seguito diamo qualche
esempio di queste nozioni elementari: si dà il nome di farmaco alle dosi di
una sostanza capace di produrre una o più variazioni misurabili in un organismo
vivente; si dà il nome di medicamento alle dosi di un farmaco che
risultano di giovamento ad un organismo ammalato; si chiamo tossici o
veleni le sostanze in cui la distanza tra la dose minima efficace e dose minima
letale è estremamente breve, così da essere prive del cosiddetto “range di management”
di cui sono dotate le molecole generalmente adottate in terapia.
Per giunta, Verdone ha contribuito a
diffondere con i suoi film antiche credenze popolari risalenti a un’epoca in
cui l’analfabetismo in Italia era prevalente e possibile in quanto non esisteva
l’istruzione obbligatoria. Ad esempio, lui attribuisce, facendola passare per
nozione medica, al fegato un foruncolo sul volto della protagonista di “Acqua e
Sapone”, che sarebbe spuntato per aver mangiato delle cozze: il foruncolo è
un’infezione da piogeni del follicolo pilifero; un’intolleranza alimentare – in
questo caso a un frutto di mare – è una risposta del sistema immunitario non
del fegato, e in ogni caso non può essere confusa con un’infezione batterica di
un follicolo cutaneo.
Un’altra cosa che ricorre è
l’attribuzione a medici di categorie sottoculturali prive di riscontro in
medicina: i suoi medici parlano di “esaurimento nervoso”, definizione che non è
mai esistita nei trattati di psichiatria, e in generale di medicina, ma è un
modo popolare di tradurre un’ipotesi del secolo scorso basata sul fatto che si
perdono cellule nervose ogni giorno e maggiormente per effetto di stress,
e che, visto che i neuroni del cervello non si rigenerano, potrebbero
esaurirsi. I suoi psichiatri psicoterapeuti avrebbero dovuto parlare di disturbi
d’ansia, disturbi da stress o, se rimasti alla nosografia del
tempo di Freud e in vigore fino agli anni Ottanta, di nevrosi (disturbi d’ansia
cronici con vari profili sindromici e di personalità) o psicosi (disturbi gravi
caratterizzati da deliri e allucinazioni).
Potremmo continuare con un lungo elenco
di asinerie e credenze popolari, che nulla tolgono all’abilità di caratterista,
di attore e regista di Carlo Verdone, che sicuramente sa fare bene il suo
lavoro ma, a voler prendere sul serio i copioni dei suoi film, si può dire che
danno un piccolo ma significativo contributo alla diseducazione sanitaria
imperante nei mass media del nostro paese. [BM&L-Italia, novembre
2025].
Notule
BM&L-29 novembre 2025
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of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
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